La mia storia medica e familiare
- Alessandro Senatore
- 18 giu
- Tempo di lettura: 45 min
Aggiornamento: 21 ore fa
I
Mi chiamo Alessandro, ho trent'anni, un'età in cui si dovrebbero inseguire sogni, realizzare progetti, vivere a pieno ogni istante.
Da giovanissimo ho avuto la fortuna di crescere nel movimento scout e di partecipare attivamente a numerose iniziative sociali e attività di volontariato, imparando dei valori solidi che hanno definito il mio modo di essere e di interpretare il mondo. Ho creduto con fermezza nell’importanza di fare sempre del mio meglio in ogni circostanza, adoperando con disciplina gli ideali che mi accompagnano da sempre.
Tali esperienze si sono rivelate fondamentali per il mio accrescimento interiore, consentendomi di vivere con maggiore consapevolezza, lontano dalla superficialità, affrontando ogni sfida con tenacia e determinazione.
Il bisogno di andare in profondità e di non accontentarmi della superficie è stato un elemento cruciale della mia evoluzione personale, sebbene questa spinta al miglioramento continuo sia stata, in qualche modo, sia una benedizione che una maledizione, perché spesso il mondo non mi ha restituito la stessa profondità con cui io mi sforzavo di affrontarlo.
Quando la malattia è entrata nella mia vita, non lo ha fatto con clamore. Non c'è stato un lampo, né un annuncio chiaro che potesse prepararmi. Piuttosto un sussurro, solo un'ombra che si allungava giorno dopo giorno, rubando piccoli pezzi della mia quotidianità. E il mio mondo collassava silenziosamente.
Oggi mi ritrovo qui, seduto davanti al mio PC e di fronte a me c’è una pagina ancora bianca. Le mie dita sono tribolanti, i pensieri corrono rapidamente e si sovrastano, come se ogni parola che sto per scrivere avesse un peso troppo grande da sostenere.
Provo a cercare serenità per riflettere sulla mia vita, pienamente consapevole della mia vulnerabilità. Non è facile esporre la propria sofferenza, ma sento che la mia storia ha bisogno di essere raccontata.
Scrivere queste pagine è una necessità, un modo per mettere ordine nel caos, per dare un senso alla mia vita, ma non lo faccio a cuor leggero, né per una scelta comoda.
La vergogna di mostrare le mie debolezze, di chiedere aiuto dopo essere stato un giovane adulto abituato a reggere il mio mondo con le mie sole forze, è un fardello che non riesco facilmente ad accettare, ma che ho imparato a riconoscere, e che oggi in qualche modo devo mettere da parte, aprendo una finestra sulla mia realtà.
Il testo che segue era inizialmente concepito solo per accompagnare la mia raccolta fondi. Col tempo ha assunto contorni sempre più ricchi di dettagli e approfondimenti, trasformandosi gradualmente in qualcosa di vicino a un romanzo. Organizzare tutto in un quadro coerente cronologicamente è stato un compito complesso; altrettanto arduo è stato scegliere cosa escludere, per non lasciare il lettore con più dubbi che risposte.
Queste pagine sono una testimonianza cruda e dolorosa della mia esperienza con una malattia autoimmune e le cronicità ad essa correlate. Descrivo il dolore in tutte le sue sfaccettature: fisico, psicologico, sociale ed economico, evitando di scivolare in una patetica lamentela e perpetua autocommiserazione. Al contrario, ritengo che questa completezza sia essenziale per trasmettere, a chi legge, la mia fatica quotidiana di “esistere” e far percepire la totalità dell'impatto della malattia sulla mia vita.
Emerge con forza la mia sofferenza fisica e psicologica, così come il senso di isolamento e la frustrazione verso un sistema e una società che non comprendono.
La narrazione è intrisa di un profondo senso di disperazione e rabbia, ma anche di una tenace, seppur fragile, speranza.
Condividere la mia esperienza, metterla nero su bianco, è il mio modo di portare alla luce una realtà fatta di dolore invisibile agli occhi di molti.
Voglio condividere il mio viaggio con una malattia cronica, non solo per me, ma per chi mi accompagna da otto anni: Annalisa, la mia compagna, la mia roccia. Insieme abbiamo affrontato tempeste che sembravano insuperabili, giungendo ora a un crocevia dove la speranza di una vita normale è ormai un ricordo lontano.
Attraverso queste righe, desidero non solo conservare la memoria di ciò che ho vissuto, ma anche spingere a riflettere su quello che si cela dietro una malattia cronica. Voglio dare una voce a chi, come me, combatte ogni giorno una battaglia silenziosa, intrappolati in un corpo che non ti appartiene, lottando non solo contro la malattia, ma anche contro l’incomprensione di un mondo che non vede, non sente, non comprende.
In ogni parola che scrivo, c’è la necessità di trovare un senso al mio dolore, c’è un'affermazione della mia umanità, un rifiuto di essere ridotto ad una diagnosi.
Ma la mia non sarà una storia di rinascita. Non ci sarà una redenzione improvvisa negli eventi, nessuna guarigione miracolosa. Non è una storia che finirà con il classico lieto fine. Non lo prometto e non lo cerco.
È una narrazione di sopravvivenza, di un’autentica lotta contro i mulini a vento, e, al contempo, di lucida accettazione. Perché vivere non significa sempre vincere. A volte, significa semplicemente restare in piedi, anche se il corpo e la mente si spezzano sotto il peso del dolore.
II
La mia vita ha preso una svolta inaspettata durante gli anni della mia adolescenza, quando si manifestarono i primi sintomi, apparentemente banali, sottili ma insidiosi segnali di una malattia che avrebbe stravolto tutto.
Avevo appena quattordici anni quando ebbe inizio una manifestazione dermatologica, che attualmente è stata riconosciuta come idrosadenite suppurativa, un’infiammazione autoimmune che porta alla formazione di lesioni nodulo-cistiche e ascessi dolorosi. All’inizio si trattava di rare cisti isolate, ma dopo pochi mesi diventarono più aggressive e numerose, diffondendosi su quasi tutto il corpo. Comparvero prima sul viso, sul petto, poi nell’inguine, sulle cosce, sulla schiena e sotto le ascelle, ammassandosi fittamente come fossero grappoli d'uva.
A quindici anni emersero le prime complicazioni urologiche. Venni sottoposto al primo intervento per un varicocele, ma alcune difficoltà persistettero, culminando in un’orchialgia cronica. Conseguentemente, scoprii di essere sterile già dall’età di sedici anni. Negli anni successivi l’infiammazione localizzata portò ad una flogosi con varie calcificazioni, una notevole riduzione del volume testicolare, e successivamente ho iniziato a soffrire anche di prostatite ormai cronicizzata.
Poco dopo, tra i sedici e i diciotto anni, iniziarono a diffondersi alcuni dolori lievi e sporadici, le prime nevralgie isolate, accompagnate da qualche episodio di infiammazione muscolare.
Non era altro che l’inizio della mia odissea.
Le primissime visite mediche che riuscivo a ottenere erano rare, veri e propri gesti di carità, favori che chiedeva mio zio, l'unica figura a mostrarmi una certa regolarità di premura e che si adoperava concretamente per me. Cercava di aiutarmi contattando i medici e mi accompagnava alle visite. Ma il suo sforzo era fortemente limitato dalla reticenza di mio padre a sostenere qualsiasi spesa medica, e questo si traduceva in un'inerzia soffocante. Ogni singola consultazione medica era una conquista, un'eccezione alla regola del risparmio ad ogni costo.
Cominciai con alcune visite, qualche analisi di routine. I risultati, però, sembravano rassicuranti. Di fatto i primi esami del sangue rientravano nei parametri, nessun indice infiammatorio fuori norma, nessun segnale evidente che potesse giustificare i sintomi che avevo.
Ogni consulto si concludeva nello stesso modo vago e freddo: «non c’è nulla di importante», «sarà stress», «passerà». Tornavo a casa con un’unica certezza: di non essere stato davvero ascoltato. Come se il mio disagio non fosse degno di attenzione, come se il fatto che gli esami fossero “a posto” bastasse a cancellarlo. Eppure, dentro di me qualcosa continuava a muoversi, a guastarsi lentamente. E io, per quanto inizialmente provavo a non dargli troppo peso, lo sentivo.
Questa assenza di un riscontro concreto ai miei malesseri emergenti, ebbe un effetto devastante e lapidario in un contesto familiare già disgregato. La mia non è mai stata una famiglia coesa e, chi avrebbe dovuto prendersi cura di me, fin dall’inizio ha faticato a riconoscere la gravità della mia situazione.
I miei genitori sono stati insieme appena due anni prima della mia nascita, per poi separarsi durante la mia infanzia. Gli esordi dei loro dissapori mi sono rimasti sostanzialmente estranei, ma ne ho subito a lungo le conseguenze, ritrovandomi incastrato in un reciproco disimpegno in cui le responsabilità venivano alternate o eluse a seconda delle convenienze individuali, trattandomi come se fossi un peso da spartire più che un figlio da crescere. L’attenzione alla mia salute che era già esigua, si assottigliò fino a quasi scomparire. Ero, in buona sostanza, abbandonato alle mie nascenti fragilità, con un corpo che iniziava a parlare una lingua che nessuno sembrava voler o poter decifrare.
I primissimi disturbi si presentarono in modo subdolo: inizialmente lievi e quasi trascurabili, ma persistenti, continui, e soprattutto, all’apparenza inspiegabili.
Soltanto da poco tempo, con molta fatica e dopo anni di indagini, si è iniziato a collegare la maggior parte dei miei sintomi a una patologia sistemica di base, riconducibile a un’alterazione autoimmune complessa. Nei primi anni però, tutto sembrava un caos clinico senza apparente logica, in cui ogni sintomo sembrava isolato. Era davvero impossibile tirarne un filo conduttore: dermatologia, urologia, neurologia, reumatologia… ogni specialista si occupava di un singolo tassello del puzzle, ma nessuno vedeva il disegno completo.
Non che ora le cose siano del tutto chiare. Ogni medico sembra dare una lettura diversa della stessa storia, ma all’epoca il quadro clinico era infinitamente più confuso e caotico. La giovane età, unita alla mancanza di segni sistemici evidenti di una patologia autoimmune, portava spesso a visite mediche insoddisfacenti, liquidate con superficialità o sospetti psicosomatici. L’invisibilità della malattia rendeva difficile persino farsi credere, e ogni consulto lasciava dietro di sé più domande che certezze.
Fu soltanto qualche anno più tardi, a seguito di un lieve tamponamento in auto, un evento banale e del tutto casuale, che aprii gli occhi su una realtà molto più complessa: una radiografia rivelò che la mia colonna vertebrale era già compromessa in misura allarmante per la mia età.
Ricordo bene quel momento, quel delicato passaggio da una vaga supposizione a una prima, parziale, presa di coscienza, che presagiva un cambiamento che non si poteva più trascurare. Non ancora una piena consapevolezza di tutto ciò che mi aspettava, ma era abbastanza per darmi la certezza che qualcosa non andava.
Quell’incidente catalizzò le mie indagini su quei dolori anormali e quei mal di schiena sempre più frequenti che si insinuavano nella mia quotidianità, e che, insieme ai problemi di natura dermatologica e endocrinologica, componevano un quadro clinico sempre più enigmatico e sfuggente.
Eppure, nonostante l’evidenza che quei dolori emergenti avessero una giustificazione clinica, in famiglia continuai a ricevere soltanto scetticismo e non venivo creduto. Vedevano, ma non volevano riconoscere.
III
Avevo circa vent’anni quando mio zio iniziò ad avere seri problemi di salute che gli impedirono di continuare a seguirmi come prima. Fu un periodo cruciale e pesantissimo. Proprio in quella fase, avrei avuto bisogno di ancora più sostegno. Mio zio aveva rappresentato fino a quel momento l’unico argine al mio abbandono. E io caddi in un vuoto ancora più profondo.
Abbandonai in silenzio tutte quelle attività che per anni avevano definito la mia identità: smisi di suonare, di frequentare gli amici, di partecipare alle associazioni in cui ero parte attiva e militante, ai gruppi con cui avevo condiviso esperienze e battaglie. Quei luoghi di condivisione e lotta, che per tanto tempo erano stati la mia casa, divennero all’improvviso lontani e inaccessibili. Non riuscii più a riallacciare i rapporti, né con le persone né con gli spazi che avevo abitato: ero abituato a dare tutto me stesso in quelle attività, non conoscevo mezze misure. Così, anche quando avrei voluto tornare, finivo per frenarmi da solo, consapevole di non poter offrire la stessa dedizione con cui ero stato riconosciuto e accolto.
In quel vuoto affondai un po’ alla volta, quasi senza accorgermene. La depressione divenne una presenza costante, che non mi ha più lasciato. Tentai di farla finita. Dopo quell’episodio iniziai un percorso terapeutico. Un cammino che, con la stessa psicologa da oltre dieci anni, mi aiuta a ricucire e tenere insieme i pezzi.
A ventun anni, con le condizioni fisiche in peggioramento e senza alcuna forma di sostegno, la situazione divenne così disperata che, per pagare le prime sedute di fisioterapia e qualche visita medica specialistica più approfondita, dovetti praticamente costringere mia nonna paterna a consegnarmi i regali in oro del mio battesimo e della mia comunione che custodiva. Solo così potei coprire quelle prime spese. Fu un atto di sostentamento forzato, ma anche l’ennesima chiara dimostrazione di quanto la mia battaglia… fosse solo mia.
Avevo ventitré anni quando i dolori iniziarono a diffondersi diventando ricorrenti e insistenti. Intrapresi il primo percorso reumatologico, ma purtroppo mi fu formulata una delle tante diagnosi errate, che portò all’impostazione di una terapia inadeguata e addirittura dannosa. Si rivelò un disastro: il mio peso aumentò di ben trenta chili in soli due mesi, un sovraccarico insostenibile per la mia colonna vertebrale già danneggiata, aggravando ulteriormente la mia condizione.
Per troppo tempo la mia vita è stata una estenuante e disperata ricerca di risposte. Un susseguirsi di visite, esami, controlli, dapprima dermatologi e urologi, poi reumatologi, immunologi, endocrinologi, genetisti, solo per poi dover ricominciare da capo.
Anni di confusione, diagnosi incerte, risposte evasive, e, peggio ancora, l'incredulità negli occhi di chi mi visitava. Spesso mi sono sentito dire che "era tutto nella mia testa", venivo liquidato con sufficienza, a volte con aperto scetticismo, insinuando che il mio dolore fosse frutto della mia immaginazione, soltanto perché "ero troppo giovane per avere certi problemi".
Ogni visita, ogni esame, ogni diagnosi mancata o errata era un passo in più verso un'esasperazione che ha raggiunto apici di autentica violenza psicologica, e non meno fisica.
Per troppo tempo sono stato costretto a sopportare il peso di questa incredulità, anche quando esami oggettivi, incluse risonanze magnetiche, evidenziavano chiaramente la presenza di una malattia autoimmune.
Non avrei mai pensato che un medico potesse essere prima di tutto una persona con i propri limiti, con paure e pregiudizi, e talvolta il proprio ego, o peggio, l’arroganza. Per gran parte della mia vita ho coltivato un’idea quasi sacra della medicina e di chi la praticava, idealizzando l’immagine del medico come simbolo di infallibilità: una figura imparziale, che dovrebbe affrontare le malattie con oggettività, mettendo sempre il benessere del paziente al centro con umiltà e rispetto.
Ma poi ho capito che non tutti i medici indossano il camice per vocazione o come un simbolo di dedizione. Ho imparato a mie spese che esiste una categoria di medici che, non riuscendo a trovare una spiegazione immediata, preferiscono negare la realtà del problema, piuttosto che approfondire un enigma che, forse, minaccia la loro sicurezza professionale. Come se ammettere che il mio corpo non si allineava ai parametri fosse una minaccia personale, un disturbo alla loro routine ordinata.
Così il mio male non era solo fisico, ma si caricava di umiliazione, di frustrazione, di quella sensazione corrosiva e costante di non essere creduto. Non venivo visto come un malato da curare, ma come un fastidio da liquidare. E nel tempo iniziai a temere non tanto il dolore fisico, quanto quell’istante in cui capivo dallo sguardo di chi avevo davanti, che aveva già deciso di non credermi prima ancora che potessi parlare.
Ogni nuova visita diventava una fonte di malessere. Mi preparavo mentalmente a dover sopportare l’ennesima sfida, come se dovessi apprestarmi ogni volta ad un processo. L’idea di andare da un nuovo medico era diventata un vero incubo, poiché non si trattava più soltanto di affrontare una malattia, ancora non ben inquadrata, ma anche la difficoltà di spiegare la complessità dei miei sintomi e di mostrare le criticità che si accumulavano.
La ricerca di un referto o delle analisi diventava un’affannosa esplorazione in una montagna di scartoffie sparpagliate sul tavolo dello studio medico, l'ansia mi annebbiava la mente, le mani mi tremavano, mentre tentavo disperatamente di organizzare le idee, di presentare le informazioni in un quadro coerente, provando a spiegare connessioni che nemmeno io riuscivo a comprendere a pieno.
A quel punto, di fronte a qualsiasi camice bianco, diventavo insicuro e ansioso. Mi scontravo con lo sguardo sprezzante di certi medici, uno sguardo che non vedeva la mia sofferenza, bensì solo la mia goffaggine e la mia difficoltà a esprimermi.
Avevo accumulato così tanti documenti che trasportarli era diventato impossibile. All’inizio bastava una semplice cartella portadocumenti, ma col tempo diventava sempre più spessa e pesante, si trasformò in una borsa intera straripante di referti, analisi, lettere di dimissione, prescrizioni.
Già solo quando estraevo i miei documenti davanti a un medico, ricevevo sguardi straniti e occhiatacce che trasparivano ostilità, fastidio, e un misto di sorpresa e sospetto.
Allora diventai archivista della mia stessa malattia. Un amico mi prestò il suo scanner, e passai due mesi a digitalizzare ogni singolo foglio. Li rinominavo con metodo: data, tipologia di visita, struttura sanitaria, nome del medico. Ho salvato tutto su una pendrive e su un tablet, così da avere sempre a portata di mano tutti i referti e gli esami.
Almeno questo potevo non vederlo come un peso, e non mi trascinavo più dietro, almeno materialmente, il carico degli anni di malattia e delle incomprensioni.
La mia condizione avrebbe avuto bisogno di una valutazione multidisciplinare, un dialogo tra diversi specialisti per ottenere una visione chiara e completa della mia salute. Tuttavia, nella realtà, è raro che professionisti di ambiti medici differenti si uniscano in un’unica analisi. All’inizio non si pensava che i miei problemi fossero collegati, né che la situazione potesse poi diventare così invasiva. Inevitabilmente, in questa frammentazione di competenze, si è instaurato un perpetuo scaricabarile, che ha reso la mia ricerca di una diagnosi incredibilmente lunga e ardua.
In questa lunga, estenuante battaglia, il nemico non è stato solo la malattia, ma anche l’ombra di chi, invece di illuminarmi il cammino, ha scelto di spegnere la luce.
Più volte, sopraffatto dallo sconforto e dal senso di impotenza, ho interrotto le visite mediche, sentendomi perso, senza una direzione. In alcuni momenti ho cercato di ignorare la mia condizione, di vivere nella finzione che fosse tutto normale, di convincermi che i miei dolori fossero solo passeggeri. Nel profondo, però, sapevo che non c’era proprio nulla di normale. Il timore che si trattasse di qualcosa di grave non mi ha mai abbandonato, però, mai avrei immaginato che fosse una malattia così profonda nella sua crudeltà.
IV
La malattia ha invaso ogni aspetto della mia vita prima ancora che potessi iniziare a comprendere davvero quali fossero i miei sogni e progetti. Da sempre ho dovuto lottare contro l’incomprensione e la mancanza di supporto, non solo da parte della società e del sistema sanitario, ma, purtroppo, da chi mi era più vicino.
Non ho ricevuto una diagnosi tempestiva né un’assistenza adeguata. Anzi, ero circondato da apatia e superficialità. Le mie sofferenze venivano minimizzate, ridotte a una presunta ipocondria o a un semplice malessere, e lo stigma nato dalla mia incapacità di continuare a lavorare, ha acuito le critiche e i giudizi di chi mi diceva di essere pigro e senza volontà, relegandomi a portatore di tutti i disvalori possibili di questa epoca.
Ogni tentativo di far capire ciò che mi stava succedendo veniva ridicolizzato e accolto da ironia. Non potevo iniziare un discorso che riguardasse me, che subito venivo interrotto. C’era sempre qualcun altro che stava peggio, sempre qualcun altro che meritava più tempo.
A ogni mia visita medica corrispondeva una battuta: «Un’altra? Ma che ci vai a fare?»
Persino ingrassare a causa dei farmaci, diventò motivo di scherno e mi veniva fatto notare e commentato ogni giorno, come se fosse una mia scelta o una colpa.
In famiglia proliferavano bias cognitivi di ogni sorta, che rendevano impossibile un confronto reale. Era un ambiente dove la ragione e la verità venivano piegate pur di non voler vedere, e ogni mio problema diventava invisibile. Ero nel posto sbagliato per essere fragile. Non ricevevo preoccupazione, ma veleno. E quel veleno, quando arriva da chi dovrebbe proteggerti, brucia più di qualunque malattia.
Questo trattamento ha inciso profondamente sulla mia identità, sulla mia autostima e ha compromesso la mia capacità di affrontare e gestire al meglio la malattia, spalancando le porte all’idea “malata” di essere io il problema.
A lungo andare, quella fase mi ha condotto naturalmente a dubitare di me stesso, a mettere in discussione non solo i sintomi, ma la mia stessa lucidità e sanità mentale, spingendomi a pensare di essere giunto al limite della pazzia.
In una spirale autodistruttiva, ignorando gli stessi segnali evidenti e concreti che mi tenevano “a galla”, mi interrogavo quasi ossessivamente su ciò che provavo e se fosse realmente frutto di una sofferenza fisica, o se, al contrario, fosse solo l’espressione di una mente in preda a turbolenze psicosomatiche. Avrei sicuramente preferito fosse così, sarebbe stato molto più facile da accettare se il tutto fosse stato solo un’invenzione del mio inconscio, piuttosto che affrontare questa realtà: una guerra che non ho scelto di combattere, fatta di dolori incessanti che sono costretto a sopportare ogni giorno e che non mi daranno mai tregua, di cui sono il solo a doverne pagare il vero costo.
Il continuo scontro tra la verità dei fatti e l’incredulità altrui ha alimentato in me un profondo senso di frustrazione e l’angoscia di dover continuamente dimostrare, ancora e ancora, la gravità dei miei problemi.
La disperazione e lo sgomento che ho provato quando il mio diritto alla salute e a poter vivere una vita dignitosa sono stati calpestati, per via delle cure e per le possibilità che mi sono state negate, per l’ignoranza e per quei pregiudizi che hanno impregnato il mio cammino, nel tempo si sono mutati in una rabbia predominante sia contro alcuni medici, ma soprattutto contro la mia famiglia, che hanno ignorato i miei problemi. È una fiamma che arde dentro di me, senza mai spegnersi. Sebbene in passato sia stata una strategia difensiva necessaria per mantenermi in equilibrio, è altresì diventata lo sfondo di qualsiasi mio altro vissuto o di ogni mia conversazione. Non riesco a costruire alcun rapporto di fiducia con la mia famiglia, perché ogni contatto riapre una ferita ormai sempre aperta.
Se la mia vita è andata come è andata, la responsabilità non è solo della malattia. È anche di chi ha scelto di restare spettatore, quando avrebbe potuto cambiare tutto anche solo con un minimo di attenzione, soprattutto quando ero ancora minorenne e il mio bisogno di supporto era massimo, perché non avevo né gli strumenti né le possibilità economiche di intraprendere un percorso di cura.
La malattia è già una sentenza durissima. Ma chi ha una rete familiare che lo sostiene, che lo ascolta, che non lo giudica, ha un vantaggio incolmabile. E io non l’ho mai avuto.
V
Oggi so che la mia diagnosi principale è la Spondiloartrite Anchilosante Sieronegativa, manifestatasi in una forma particolarmente aggressiva. È una malattia reumatica cronica che colpisce principalmente le articolazioni della colonna vertebrale, portando infiammazione, rigidità e, nel mio caso, ha causato danni strutturali significativi, che da cinque anni mi costringono a indossare un busto steccato solo per riuscire a stare in piedi e svolgere alcune delle attività quotidiane più semplici.
Pur non avendo ancora l’assoluta certezza che sia la diagnosi definitiva, è quella che ad oggi riesce a rappresentare meglio la complessità del mio quadro clinico e ad accomunare la maggior parte dei miei sintomi. Questa patologia è solo una delle numerose sfide che affronto. Come una goccia che scava la roccia, la malattia, vincolata alle leggi ineluttabili del tempo, ha continuato la sua opera distruttiva.
L'artrite ha esordito sin dai vent’anni, e ha già coinvolto ogni mia articolazione, stringendole in una morsa dolorosa che rende ogni movimento un’agonia, limitando drasticamente la mia mobilità e la mia sensibilità tattile.
La fibromialgia amplifica la percezione del dolore, mentre la miastenia causa una marcata debolezza muscolare, accompagnate da una fatica cronica opprimente, aggiungono dolori diffusi acuti e brucianti, come, ad esempio, quelli che si avvertirebbero al mattino dopo il primo giorno palestra.
La discopatia degenerativa e l'osteoporosi diffusa, conseguenze dirette della Spondilite e dell'infiammazione cronica, hanno reso la mia colonna vertebrale estremamente vulnerabile e rigida, portando già quattro collassi vertebrali.
Le ernie discali e le nevralgie cronicizzate intensificano ulteriormente la sofferenza, trafiggendomi con spasmi lancinanti e dolori acuti, e rendendo anche il semplice gesto di chinarmi, alzarmi da una sedia o ruotare il collo, dei movimenti sempre molto dolorosi.
Il dolore cronico è un fardello invisibile, un nemico paziente ma imperante. Fatico persino a ricordare come sia cambiata la mia vita e cosa significhi vivere senza dolore.
Le azioni più banali, come allacciarmi le scarpe, portare un ombrello, sistemarmi i capelli, richiedono uno sforzo eccessivo senza una proporzione logica, causando costantemente fitte e dolori che dalle braccia arrivano fino alle dita e le nocche, spesso gonfie e dolenti.
Posso camminare soltanto con l’aiuto di un bastone, e quando cammino, le ginocchia mi affliggono con dolori atroci, e devo spingere, quasi trascinare le mie gambe con forza, talmente pesanti che sembrano di piombo. Una forte pressione si irradia dalla schiena, e ormai anche stare pochi minuti in piedi e mi sento cedere, costringendomi a cercare un appoggio o a sedermi.
Nella mia giornata compio centinaia di piccoli movimenti che per gli altri sono scontati. Per me, invece, rappresentano un susseguirsi infinito di sacrifici, sia fisici che mentali, un continuo scendere a compromessi con la malattia. Per esempio, se un piede mi fa male e cerco di camminare in modo da alleviare il fastidio, so già che inevitabilmente il dolore si sposterà sull’altra gamba, sul bacino o sulla schiena. Ogni cambiamento nella postura, ogni compensazione, innesca una reazione a catena di nuove infiammazioni e sofferenze. È un equilibrio precario, sempre in bilico, che non mi permette mai di sentirmi a mio agio, nemmeno per un istante.
Le notti potrebbero essere un momento in cui il corpo e la mente vorrebbero concedersi una tregua, ma per me sono tutt’altro che rigeneranti. Ogni mio tentativo di riposo viene interrotto da spasmi muscolari e fitte acute improvvise che mi svegliano di soprassalto. Ogni posizione sembra sbagliata, e il dolore mi costringe a girarmi e rigirarmi nel letto, in una ricerca di una posizione sopportabile e di un minimo sollievo per poter riprendere sonno.
Inoltre, come già accennato in precedenza, negli ultimi anni ho avuto diversi episodi infiammatori alla prostata, alcuni dei quali si sono protratti per mesi, costringendomi ad alzarmi anche dieci volte durante le notti, sempre più frammentate.
La mancanza di sonno non mi permette di recuperare la spossatezza che si accumula, portandomi a vivere periodi di fortissimo stress, compromettendo fortemente la mia lucidità e concentrazione, ed intensificando la depressione che trova terreno fertile per amplificare la percezione del dolore.
Ogni mattina mi sveglio più stanco di quando sono andato a dormire, con il corpo sempre più rigido e dolorante, come se un tir mi avesse preso in pieno e poi ripassato in retromarcia.
La mattina in particolare, è per me un momento estremamente difficile, perché il dolore è talmente diffuso e intenso che, fino a quando gli antidolorifici non fanno effetto, a stento riesco ad alzarmi dal letto e mantenermi in piedi.
Queste non sono che alcune delle mie cronicità, che fin dall'inizio si sono intrecciate in una complessa tessitura di sofferenza e mi hanno impedito di affrontare la malattia un passo alla volta. Ogni nuova patologia si è sovrapposta alla precedente, rendendo ogni giornata una sfida insostenibile, un'escalation di dolori che non avranno mai fine.
VI
Dopo anni di estrema sopportazione, sofferenza e incertezze diagnostiche, dopo un pellegrinaggio estenuante tra dotti, medici e sapienti, che si sono rivelati inadeguati e inefficaci, mi ritrovai ad iscrivermi ad alcuni gruppi Facebook dedicati alle patologie reumatiche, cercando di approfondire la mia comprensione delle malattie croniche e considerando alternative più specializzate.
Fu in quel contesto, tra pareri, consigli e racconti di successi e insuccessi, che ritrovai la consapevolezza di non essere solo in questa lotta. Ho potuto leggere le esperienze altrui, osservare come ognuno interpretasse e affrontasse i sintomi e le complicazioni, e capire la realtà della malattia da prospettive diverse.
Leggendo le testimonianze di chi aveva intrapreso il percorso terapeutico al Policlinico di Siena e constatando la soddisfazione di molti per l’approccio e l’attenzione riservata a ogni paziente, superai finalmente il timore e la distanza che, fino a quel momento avevano frenato il mio coraggio. Decisi quindi di rivolgermi al Centro di Eccellenza in Reumatologia del Policlinico Le Scotte di Siena, in Toscana.
Lì, finalmente, sono stato ascoltato, compreso. Sono stato sottoposto a una serie di esami approfonditi e consulti specialistici mirati, che hanno portato a una diagnosi chiara. Un nome, finalmente, per conoscere la bestia che ho dentro, quello che mi sta consumando. Un nome che, se da un lato metteva fine a un lungo periodo di incertezze e dubbi, dall'altro apriva le porte a un nuovo capitolo, fatto di terapie, speranze e, purtroppo, anche di nuove consapevolezze e profonde delusioni.
Parallelamente, sono stato indirizzato a eseguire ulteriori analisi genetiche presso l’Ospedale Careggi di Firenze, uno dei centri più qualificati per integrare il percorso diagnostico avviato a Siena. Questi test, estremamente avanzati, avevano lo scopo di individuare eventuali predisposizioni genetiche e chiarire ulteriormente le origini della mia condizione, nella speranza di personalizzare ulteriormente le terapie.
Le terapie prescritte comprendevano l'uso di farmaci biologici, studiati per agire sulle cause della patologia autoimmune, e farmaci ad azione antitumorale, utilizzati in dosi calibrate per i loro effetti immunomodulanti. Dopo aver sperimentato diverse classi di farmaci immunosoppressori, si era arrivati a intensificare drasticamente il regime terapeutico, con due somministrazioni settimanali, Adalimumab in associazione al Metotrexato, ma i risultati, anche qui, sono stati deludenti.
Durante l’ennesima visita di controllo il reumatologo appariva chiaramente segnato. Non lo disse esplicitamente, ma il suo atteggiamento trasudava un profondo senso di tristezza o imbarazzo. Mi disse con franchezza che rimaneva una sola opzione terapeutica da tentare, sottolineando però che le speranze di un miglioramento significativo erano ormai illusioni.
«Proviamo», risposi, accettando così di intraprendere questo ulteriore viaggio attraverso terapie e i loro effetti collaterali. Ho iniziato quindi con l'Infliximab, il più avanzato tra gli inibitori del TNF-alfa, un farmaco endovenoso che mi è stato somministrato in otto cicli consecutivi, direttamente presso l’ospedale di Siena. Ogni flebo veniva preparata su misura dalla farmacia dell’ospedale, appositamente formulata per il mio caso specifico, con un dosaggio doppio rispetto a quello previsto dal protocollo standard del Sistema Sanitario Nazionale. Richiedeva il ricovero giornaliero e un’osservazione post-trattamento, per monitorare gli effetti collaterali.
Ogni viaggio era una maratona, un ulteriore sforzo fisico e mentale, ma ero disposto a tutto pur di trovare un po' di sollievo, una via d'uscita da questa sofferenza. La distanza dalle città di Siena e Firenze, rispettivamente a circa 450 e 500 km dalla mia abitazione, ha reso ogni viaggio una sfida di resistenza fisica, ma anche una sfida logistica e finanziaria. Ogni ciclo di trattamento e ogni visita di controllo richiedevano spese che variavano tra i 400 e i 500 euro, includendo i costi di viaggio, cibo e alloggio per me e la mia compagna, negli alberghi in convenzione con gli ospedali.
Pur privi della spensieratezza tipica di un viaggio intrapreso per piacere, li ricordo con un affetto quasi malinconico. La destinazione non era lieta, eppure ogni partenza aveva uno scopo, racchiudeva un frammento di speranza. C’era un traguardo da raggiungere, una visita da affrontare, una terapia da iniziare. Un piccolo spiraglio in cui riporre fiducia. E questo bastava, paradossalmente, a rendere quei lunghi tragitti qualcosa di quasi piacevole.
Insieme ad Annalisa, affrontavamo ogni volta oltre novecento chilometri in macchina, con un certo senso di leggerezza. Quasi sempre gli appuntamenti erano fissati al mattino, quindi viaggiavamo il giorno prima. Sia per le visite mediche che, nell’ultimo anno, per le flebo che cominciavano alle otto del mattino. Partivamo quindi all’alba del giorno prima, per evitare il traffico e, soprattutto d’estate, il caldo opprimente delle ore centrali. Preparavamo la valigia e la borsa frigo, piccoli riti che viaggio dopo viaggio, diventavano sempre più familiari.
Annalisa, in quelle traversate, era l’assistente di viaggio perfetta: mi apriva l’acqua quando avevo sete, mi rollava una sigaretta, mi parlava per distrarmi. Lungo l’autostrada, ci innamoravamo ogni volta dei paesaggi che cambiavano a seconda della stagione. I colori degli alberi e dei campi che circondavano l’autostrada, le luci che riflettevano sui paesaggi e i profili delle colline umbre e poi toscane, erano ogni volta diversi, sempre nuovi, sempre spettacolari.
Accendevamo YouTube dal telefono per ascoltare un podcast di Tintoria che impegnava la nostra attenzione per almeno metà viaggio, poi mettevamo della musica e cantavamo quanto più forte possibile. Mi lasciavo trasportare dalla musica e mi ritrovavo a picchiettare con le dita sul volante come se fosse una batteria, talvolta fino a farmi quasi male. Ma ridevamo, ci divertivamo. Era la nostra bolla, un tempo sospeso in cui, nonostante tutto, riuscivamo ancora, a modo nostro, a sentirci vivi.
Arrivavamo quasi sempre intorno all’ora di pranzo. Immancabile era la sosta da RoadHouse e poi ci dirigevamo verso l’albergo. Se non eravamo eccessivamente stanchi, nel tardo pomeriggio uscivamo per fare una passeggiata nel centro della città.
I viaggi di ritorno, però, erano un’altra storia. Specialmente dopo le infusioni endovenose, che si concludevano verso le due del pomeriggio. Giusto il tempo di pranzare in fretta e ripartivamo. Annalisa tentava di alleggerire l’atmosfera, ma gli effetti collaterali del farmaco si facevano sentire già prima di lasciare l’ospedale: stordimento, nausea, cefalea, una necessità incessante di urinare per smaltire il farmaco. Quelle che all’andata erano quattro ore di viaggio diventavano spesso sei, sette. D’inverno poi, con il buio che calava in fretta, diventava ancora più difficile. Alla stanchezza accumulata nelle ore passate in ospedale, si aggiungevano gli effetti immediati del trattamento, e con essi, i dolori che normalmente ho per restare seduto a lungo. La schiena e la nuca che bruciavano, le gambe diventavano doloranti e i crampi continui mi martoriavano. Il tutto rendeva ogni viaggio di ritorno una corsa a ostacoli estenuante ed estremamente dolorosa.
Spesso ero costretto a fermarmi ogni dieci o quindici minuti, in ogni piazzola di sosta, per urinare, per vomitare, a volte per entrambe le cose. Ma non potevamo permetterci di riposare o restare fermi a lungo, perché ogni minuto che passava aumentavano le difficoltà, e la sofferenza diventava sempre più ingestibile. Era una corsa contro il tempo, contro un peggioramento inevitabile, che si trascinava poi per diversi giorni, a volte settimane.
Alcuni viaggi di ritorno sono stati davvero pericolosi. Non dico che abbiamo rischiato la vita, ma ci siamo andati vicini. Facevo del mio meglio per restare vigile, per tenere gli occhi aperti e sulla strada, ma non era per niente facile. Più di una volta ho raggiunto il limite più estremo della sofferenza e della stanchezza. Per fortuna, siamo riusciti a tornare a casa sempre interi.
Ma ogni volta, quel tragitto lasciava dietro di sé una sofferenza che non era solo fisica. Non solo a causa degli effetti collaterali, della fiacchezza e dei dolori che pervenivano pur di portare a termine quel nostro obiettivo, pur di inseguire quella speranza, ma anche per via del peso economico che comportava affrontare quei viaggi. Un logoramento preannunciato che si sommava a tutto il resto.
Negli ultimi tre mesi di terapia immunosoppressiva, la situazione si era ulteriormente complicata perché avevo sviluppato una bronchite forte e persistente che non voleva saperne di passare. I farmaci immunosoppressivi mi indebolivano e il mio corpo era diventato terreno fertile per qualsiasi altro problema, avendo reso il mio sistema immunitario estremamente vulnerabile. Quella tosse ostinata, le notti insonni, una forte nausea e la fatica nel respirare rendevano ogni giornata ancora più pesante. Era come se, ogni piccolo passo che provavo a fare in avanti, fosse in realtà due passi indietro.
Alla fine, il costo per inseguire questa speranza si è rilevato insostenibile. Nonostante continuare con le terapie prescritte a Siena fosse la mia unica speranza concreta di rallentare minimamente la progressione della malattia, l’impegno fisico e soprattutto l’onere economico si sono rilevati troppo gravosi, costringendomi a interrompere i viaggi per le terapie e le visite.
Ho cercato di sostenere quelle spese finché ho potuto, sacrificando ogni risorsa possibile. Ho venduto numerosi oggetti personali, ho rinunciato a tutto ciò che non era strettamente necessario e ho supplicato ancora l’aiuto della mia famiglia.
Avrei voluto continuare a seguire le indicazioni dei medici conosciuti a Siena e Firenze, mantenere un contatto con questi centri di eccellenza, ma la combinazione dei risultati deludenti unito alle difficoltà economiche ha spezzato questo ennesimo percorso terapeutico, lasciandomi vulnerabile e impotente, senza più alternative concrete e, ancora una volta, in balia della malattia.
Nonostante l’impegno profuso e la complessità delle cure ricevute, i risultati sono stati insignificanti. Il dolore, la rigidità e gli altri sintomi non sono diminuiti in modo rilevante. Questi farmaci biologici richiedono un attento bilanciamento tra i benefici e gli effetti collaterali, rendendo evidente che, almeno per il momento, non è stato possibile ottenere un controllo stabile della malattia. Il mio sistema immunitario, purtroppo, non risponde come previsto alle terapie.
Attualmente, sono in trattamento solo con Secukinumab, un anticorpo monoclonale diretto contro l’Interleuchina 17, considerato un farmaco biologico di ultima generazione per il trattamento delle forme severe e refrattarie di malattie infiammatorie croniche autoimmuni. Nonostante si tratti di una delle terapie attualmente più potenti e tecnologicamente avanzate disponibili in commercio, il suo impiego nel mio caso non ha sortito alcun beneficio clinico rilevante. La mancata risposta al trattamento suggerisce una forma di refrattarietà farmacologica, compatibile con un profilo immunopatogenetico atipico. In tale contesto, il persistere dell’attività infiammatoria della malattia, nonostante il ricorso a strategie terapeutiche di massima intensità, pone una sfida clinica estremamente complessa.
Il reumatologo che mi seguiva a Siena, con evidente frustrazione, mi ha spiegato che i trattamenti biologici che ho provato, offrono normalmente risultati significativi all' 80-85% dei pazienti, ma nel mio caso hanno fallito. Mi trovo in quel 15% per cui queste terapie non funzionano, e questo lascia una consapevolezza devastante: essere condannati a una lenta e inesorabile decadenza.
Seguo le prescrizioni della Terapia del Dolore, una necessità senza la quale sarei inchiodato a letto. Assumo farmaci potenti come il fentanyl e l'ossicodone, ma che mi permettono a malapena di affrontare la giornata. I benefici che ne traggo sono minimi, appena sufficienti per gestire il dolore neuropatico e del tutto inutili nel fermare l’avanzare inesorabile della malattia.
Nonostante i numerosi consulti specialistici e le terapie farmacologiche ad alto dosaggio che già assumo quotidianamente, convivo con un dolore cronico profondo, diffuso in ogni parte del corpo e spesso insopportabile.
Al momento non esistono cure risolutive per la mia patologia né per il dolore sintomatico, e l’unica possibilità terapeutica consiste nel cercare di contenere il dolore e migliorare la qualità della mia vita.
Sebbene il prosieguo della mia condizione sia ormai definitivo, molte incertezze non smetteranno di accompagnarmi. La scienza, per quanto avanzata, ha ancora molti limiti, soprattutto di fronte a condizioni rare e complesse. Le malattie autoimmuni, specialmente quelle più rare, spesso rimangono all’ombra dell’attenzione scientifica e della ricerca, a causa della loro complessità. Il sistema immunitario è estremamente complesso e le sue disfunzioni sono difficili da studiare e comprendere a pieno.
Non esiste cura specifica per la mia condizione, e le prospettive, in questo momento, non sono incoraggianti. Questo non è un ostacolo temporaneo: significa che, senza una nuova soluzione, dovrò affrontare un futuro segnato da ulteriori perdite di mobilità, dolori sempre più intensi e un costante aumento delle complicazioni legate alla malattia. Se non si dovesse trovare un trattamento più efficace, la mia condizione potrebbe degenerare rapidamente nel giro di qualche anno. Il rischio di finire su una sedia a rotelle, o peggio, di ritrovarmi allettato, sopraffatto da dolori strazianti e insopportabili, diventa ogni giorno più reale.
Questa probabilità mi lascia pietrificato, mi riempie di un’angoscia asfissiante, come se stessi vivendo il lutto di un lento, anticipato ma inesorabile addio a me stesso. Mi trovo in una condizione di estrema vulnerabilità, consapevole di aver esaurito tutte le potenziali alternative che avrebbero potuto offrirmi una possibilità di miglioramento.
Ho cercato di seguire persino terapie complementari o alternative, ma ogni tentativo di rinnovare la mia condizione sembra infrangersi contro un muro di inefficacia, lasciandomi in un inevitabile stato di crescente pessimismo e disperazione.
Tuttavia, la ricerca scientifica continua a fare progressi e, con essa, la possibilità di terapie migliori in futuro.
VII
Negli ultimi anni, le spese mediche hanno raggiunto un costo proibitivo. Devo sostenere le spese per sottopormi a sedute di fisioterapia manuale riabilitativa almeno due, tre volte a settimana, per cercare di contrastare la progressiva rigidità del corpo e mantenere una minima mobilità. Molti dei farmaci necessari per prevenire peggioramenti e alleviare almeno in parte alcuni dei miei sintomi, non sono coperti dal Sistema Sanitario, con un costo mensile che supera i 350 euro.
Le spese fisse per chi vive con una malattia cronica sono infinite e vanno ben oltre i costi delle terapie e delle visite mediche. Molte altre spese indirette si accumulano, come dover cambiare le scarpe ortopediche ogni anno, e dover sostituire ancor più frequentemente il busto perché perde elasticità ed efficacia. A questo si aggiungono le visite specialistiche, le sedute di fisioterapia, i consulti con altri professionisti privati, gli esami diagnostici, che richiedono ulteriori attenzioni e, soprattutto, ulteriori esborsi economici.
Non meno importanti sono le spese ordinarie della vita quotidiana, tra cui la gestione dell’auto, diventata essenziale per i miei spostamenti verso le visite mediche e le terapie, con i suoi costi di assicurazione, revisione e bollo che incidono per circa mille euro all'anno.
L'impatto della malattia sulla mia vita è stato totalizzante. Non solo la quantità di denaro che ho bruciato per far fronte alle mie necessità mediche è sfuggita a ogni misura, ma ogni aspetto della mia vita è stato condizionato dalla malattia e dalle conseguenti spese.
Ogni piccolo desiderio, ogni piccolo sogno, è stato sacrificato sull'altare della malattia, nel vano tentativo di sopravvivere giorno dopo giorno in questa lotta senza fine.
Ho dovuto rinunciare a vivere la mia vita come avrei potuto desiderare, a progettare un futuro sereno e spensierato. Ho sacrificato momenti come l’andare a cena fuori con la mia compagna che avrebbe alleviato il peso delle giornate difficili, e ai viaggi che avrebbero arricchito il nostro tempo insieme. Ho perso molti amici lungo la strada, ho smesso di frequentare le associazioni a cui dedicavo tutto me stesso, non sono riuscito a coltivare più gli interessi e gli hobby che mi avrebbero regalato un po’ di leggerezza, né tantomeno a frequentare corsi di formazione che avrebbero potuto migliorare le mie prospettive lavorative.
Ho perso ogni passione, ogni abitudine, ogni attività che un tempo riempiva le mie giornate, anche piccole o effimere, che mi offrivano uno sfogo, una distrazione.
E ora che non ho più le forze di fare nulla, la nostalgia di quel tempo in cui potevo ancora scegliere, la nostalgia degli anni spesi a rincorrere una malattia che non ha mai concesso tregua, e quella di una normalità che continuavo ostinatamente a inseguire, mi adombrano il cuore e mi riempiono d’angoscia. È un peso rumoroso, che si insinua nei pensieri e nelle giornate, un costante rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere, se solo avessi avuto il tempo e il corpo per fare quello che avrei voluto.
Sogni e progetti, per quanto piccoli, ma per me preziosi, si sono sgretolati tra le mie mani. Le opportunità che un tempo sembravano alla mia portata, sono diventate sempre più irrealizzabili, soffocate dal peso delle difficoltà, lasciandomi impassibile con il vuoto degli anni spesi a cercare di costruire qualcosa che non ha mai avuto nemmeno il tempo di prendere forma.
VIII
Avevo sedici anni quando scoprii di avere l’azoospermia, probabilmente conseguenza del primo varicocele e dell’orchialgia cronica, ma per me era difficile comprenderne veramente il significato. A quell’età il futuro sembrava un concetto lontano, nebuloso, e la mia attenzione era già distratta dai nuovi problemi imposti dalla malattia, che mi aveva appena cominciato a sottrarre piccoli pezzi di vita. In ogni caso non avrei potuto fare nulla per cambiare le cose. La sterilità era un dato di fatto, una realtà che accettai senza capirne davvero le implicazioni.
Gli anni passarono e la mia vita continuò, per quanto possibile, alla ricerca di un equilibrio. Quando iniziai la relazione con la mia attuale compagna, decisi di parlarle subito di questa difficoltà, consapevole che fosse una parte della mia realtà. Insieme avremmo affrontato ciò che il destino ci avrebbe riservato.
Quando nel 2018 fui preso in carico da un reparto di genetica medica a Napoli, nel tentativo di individuare la mia patologia autoimmune, mi fu prospettata la possibilità di congelare il seme per tentare, un giorno, di costruire una famiglia, tramite la tecnica della fecondazione in vitro. Era una speranza esigua, resa più urgente dal peggioramento della mia condizione, ma io e la mia compagna ci aggrappammo a questa opportunità in mezzo a tante incertezze.
Abbiamo accarezzato questa idea, era uno di quei discorsi che tornava sempre. In quei momenti ci guardavamo e sorridevamo, sognando ad occhi aperti quella possibilità che sembrava così reale, ma anche molto fragile e incerta. Per cinque anni, abbiamo pagato il rinnovo di quella crioconservazione, una spesa importante ma che affrontavamo senza esitazione, il prezzo giusto da pagare per mantenere vivo il nostro sogno di costruire una famiglia.
Ma poi è arrivato il momento di fare nuovamente i conti con la realtà. Le difficoltà erano troppe, le nostre forze troppo poche. Ci siamo trovati davanti all’unica scelta sensata da fare, perché per noi è stato impossibile ignorare la consapevolezza che mettere al mondo una vita, nelle nostre condizioni, sarebbe stato ingiusto. Ed è stata una delle scelte più difficili della mia vita.
Firmare i documenti per interrompere la crioconservazione fu una decisione razionale, lucida, ma non per questo meno devastante. Quel giorno ci ha lasciato un’altra profonda cicatrice. E per quanto cerchi di razionalizzare, per quanto provi a dirmi che fosse la cosa giusta, non posso evitare di sentire quel dolore. Perché lasciar andare questo sogno è stato come perdere un pezzo di noi stessi. E quel vuoto, fa male, più di quanto riesca a spiegare.
IX
Ho lottato con tutte le mie forze per sostenere una vita che, almeno in superficie, conservasse una parvenza di normalità. Ho provato a vivere alla giornata, desideravo di fare ancora le cose normali, come tutti, come prima. Mi sono sforzato di nascondere il dolore e la fatica, cercando di proteggere chi mi sta accanto dalla mia sofferenza, tentando talvolta di ingannare anche me stesso, illudendomi che la malattia non stesse prendendo il sopravvento. Ma, con il passare del tempo, questa battaglia silenziosa contro il dolore mi ha stroncato. Ogni sforzo per mantenere una facciata di normalità mi è costato sempre di più, fino a quando ho dovuto arrendermi all’evidenza che la mia condizione ha superato ogni limite.
Ho combattuto, resistendo strenuamente. Ho fatto tutto ciò che credevo fosse in mio potere. Ma ora mi sembra di non avere più risorse a cui attingere. Ogni speranza di vivere almeno un altro giorno senza dolore si è sgretolata. La mia esistenza si è ridotta a un'ombra sbiadita di quella vita che avrei potuto vivere, dominata da un dolore che non conosce requie e da una mobilità che si riduce giorno dopo giorno. Ogni passo, ogni respiro è un atto di mera sopravvivenza. Ogni giorno mi sento più vuoto, consumato da una stanchezza che non è solo fisica, ma anche mentale ed emotiva.
Chi non vive questa condizione sulla propria pelle non può capire veramente cosa significhi perdere pezzi di vita ogni giorno, né cosa voglia dire dipendere dagli altri anche per le cose più semplici, gesti che un tempo compivo con naturalezza, e che ora sono impossibili.
Ho sempre osservato con un certo senso di incredulità e disappunto quelle persone che, pur avendo problemi che potrebbero essere risolti con un minimo sforzo, una compressa, una dieta, una semplice attenzione, poi scelgano, con una certa inerzia, quasi per abitudine, di procrastinare la risoluzione di un problema.
Sebbene ogni dolore sia diverso, al di là della legittima sofferenza, le lamentele diventano una costante, un’abitudine che abbraccia un’atmosfera di stagnazione e incapacità. Questo mi infastidisce profondamente, perché disprezza il mio dolore e di chi, come me, vive una condizione che non può essere facilmente dimenticata, con nessuna pillola o nessun rimedio, e che, come me, farebbe di tutto per eliminare la propria sofferenza, anche solo per un giorno.
Mi ritrovo avvolto da un'amalgama di apatia e depressione, incapace di ignorare la malattia che consuma tutte le mie risorse. Mi chiedo come andare avanti, come trovare un motivo per non lasciarmi sopraffare dal dolore e dalle difficoltà che si accumulano in modo implacabile. Ma la risposta, al momento, sembra sfuggirmi.
Mi ritrovo molto spesso a convivere con il pensiero di porre fine a tutto. Non vedo altra via d’uscita da questa sofferenza. Eppure, nonostante questo pensiero perseguitante mi attraversi la mente, mi manca il coraggio di compiere un gesto così estremo. La mia vita, per quanto schiacciata dal peso del dolore, conserva ancora un barlume di speranza, un legame con ciò che amo, che mi trattiene dal compiere quell'atto estremo.
La malattia, paradossalmente, mi ha insegnato il valore inestimabile della vita, in ogni suo momento, attraverso la capacità di rimanere umani, autentici, anche di fronte alle sfide più ardue. Eppure, non riesco a concepire di trascorrere la mia vita imprigionato, legato al mio destino.
X
La mia compagna da ormai otto anni mi sostiene con una straordinaria dedizione e un amore incondizionato, e non voglio infliggerle un dolore così immenso.
Fin dai primi tempi, tra noi si è creata un’intesa forte. Eravamo, e siamo ancora, una coppia che viveva come un tutt’uno, una di quelle unioni che sembrano sfidare tutto il resto. È stata presente a ogni visita medica, mi ha accompagnato in ogni viaggio estenuante. Sempre al mio fianco, con una dolcezza mai appesantita dalla stanchezza, senza mai farmi pesare nulla. Anche nei momenti in cui il dolore e la disperazione trasformano ogni giornata in un’agonia, lei è la mia forza, l’unico motivo per andare avanti, anche quando tutto sembra irrimediabilmente perduto.
Quando iniziammo a frequentarci, le sue relazioni familiari, segnate da una profonda instabilità e intrise di complessità, sono state messe ulteriormente a dura prova. Proprio per proteggerla dagli atteggiamenti corrosivi e dalle angherie che subiva nel suo ambiente familiare, decidemmo di convivere quasi subito. Lei venne quindi a vivere da me, nella casa che condividevo con mio padre. Non fu una scelta presa con leggerezza, ma necessaria. Era, in realtà, un gesto di sopravvivenza, la risposta obbligatoria a un contesto che non lasciava spazio a nient’altro se non alla fuga.
Il peso che più mi opprime il cuore è il senso di colpa che provo nei suoi confronti. La sua vita si è profondamente intricata alla mia.
Si dedica a me con una dedizione che va oltre ogni immaginazione, occupandosi di ogni aspetto della vita quotidiana, affrontando un carico immenso sia fisicamente che emotivamente. Pensa alle faccende domestiche, gestisce la spesa, la cucina, e mi assiste in ogni mia necessità, anche le più intime, come aiutarmi a fare la doccia o persino a vestirmi nei giorni più difficili.
La sua carriera, le sue aspirazioni professionali sono state messe da parte per stare con me il più possibile. Ha dovuto rinunciare al suo lavoro a tempo pieno, limitandosi a un part-time che non solo non la soddisfa professionalmente, ma che ci espone a una costante instabilità economica. La sua vita sociale è quasi nulla, i suoi sogni e desideri sono stati messi in secondo piano, sacrificati in nome di una responsabilità che non ha mai chiesto.
Le mie condizioni fisiche mi impediscono di aiutarla concretamente nelle attività quotidiane quanto vorrei, ma cerco di alleviare in ogni modo possibile il peso che grava sulle nostre spalle, partecipando, anche se solo parzialmente, nelle attività quotidiane, come organizzare la spesa, aiutarla nelle faccende domestiche, quando mi è possibile. Tuttavia questo non sempre è sufficiente.
Quando non è al lavoro, le giornate si trasformano in un’organizzazione frenetica degli impegni, che riduce drasticamente il suo tempo libero e il suo spazio personale, sottraendole la possibilità di riposarsi o dedicarsi a ciò che la farebbe sentire libera.
Vedere la mia sofferenza giorno dopo giorno è estremamente difficile per lei, lasciandole un senso di impotenza di fronte alla mia malattia. Si colpevolizza quando ha bisogno di aiuto o cerca un momento di respiro per se stessa. Io cerco di darle il mio supporto emotivo e di farle sentire la mia eterna gratitudine per tutto quello che fa, ma la realtà rimane incentrata su una lotta incessante.
Chi si prende cura di una persona con una malattia cronica vive costantemente uno stato di allerta, sopraffatto dalle preoccupazioni per il futuro, con un impatto profondo sul suo equilibrio psicologico. È una situazione che logora nel tempo, ma cerchiamo di affrontarla insieme.
Quando la mia condizione di salute si è fatta più difficile, parte della sua famiglia non ha più accettato la nostra relazione a causa delle limitazioni lavorative imposte dalla mia malattia, osteggiandoci e allontanandola del tutto. Un ulteriore colpo, un'ulteriore dimostrazione di mancanza di empatia e comprensione. La loro incapacità di accettare le difficoltà che la vita ci ha posto di fronte è stata una ferita profonda, un'ulteriore manifestazione della superficialità e della miopia disarmanti che ci circondano.
Nonostante tutto, lei è rimasta al mio fianco, provandomi ogni giorno un amore incondizionato e una forza straordinaria. Ne abbiamo passate davvero tante, sempre uniti e sempre insieme. Barcamenandoci nella complessità della vita, abbiamo trovato un modo nostro di starci vicino e di alleggerire l’uno il carico dell’altro, per mantenere sano il nostro rapporto, che viene esposto sempre a nuove sfide.
È la mia migliore amica, la mia roccia, la persona che mi ama più di ogni altra cosa al mondo. Vorrei poterle dare la serenità che meritiamo, farla sentire felice. Il bisogno di darle una vita migliore, di essere una persona migliore per lei, è il fuoco che mi spinge a lottare.
XI
Ho cercato aiuto attraverso varie fonti, ma purtroppo mi sono scontrato con un muro di burocrazia e indifferenza. In Italia, gli aiuti economici destinati alle persone in difficoltà sono insufficienti e spesso difficili da ottenere. Tramite l'INPS (Istituto Nazionale di Previdenza Sociale) sono riuscito a ottenere il 75% di invalidità, che mi dà diritto a una pensione di appena 343 euro mensili. Una cifra ridicola, che non permette di vivere dignitosamente e copre a malapena una piccola parte delle mie spese mediche, tra farmaci, visite specialistiche e terapie, molto spesso a pagamento.
È avvilente vedere come il nostro paese tratti le persone con disabilità, offrendo un supporto così inadeguato, amplificando significativamente il senso di abbandono a se stessi, il vuoto mentale e le incertezze legate al futuro e che mi perseguitano costantemente.
Ho cambiato diversi lavori nel corso degli anni, cercando di adattarmi alle crescenti limitazioni fisiche. Nella mia zona, trovare lavoro è già difficile di per sé, ma trovare un'occupazione compatibile con la mia condizione si è rivelato quasi impossibile.
Quando i miei problemi cominciarono a diventare invasivi e diffusi, fui costretto a lasciare il mio ultimo impiego, comunque precario e mal retribuito, al limite dello sfruttamento. Da allora affrontai un vero e proprio calvario. Avrò fatto un centinaio di colloqui nel vano tentativo di trovare un lavoro che non fosse del tutto incompatibile con la mia salute, ma è comprensibile pensare che nessuno mi assumerebbe sapendo che, in un qualsiasi giorno potrei non presentarmi perché non riesco nemmeno ad alzarmi dal letto.
Negli anni più recenti quindi, riadattandomi ulteriormente alle mie limitazioni, ho provato a reinventarmi come grafico freelance, lavorando al computer, pensando che fosse una delle poche attività che avrei potuto svolgere da casa. Mi rivolgevo a piccole attività come bar, ristoranti, organizzatori di eventi, proponendomi per la realizzazione di menù, locandine e materiale promozionale. Ero meticoloso e preciso, e i clienti apprezzavano il mio lavoro. Ma, nonostante l’impegno, i guadagni erano minimi. Servivano giorni o a volte intere settimane per completare un progetto, e i compensi erano spesso irrisori.
Nel frattempo, con il progredire della malattia, anche i movimenti più semplici sono molto lenti e limitati, e le attività che richiedono sforzi fisici prolungati o posizioni statiche sono diventate impossibili, traducendosi conseguentemente in dolori debilitanti che mi perseguitano poi per ore, a volte per giorni successivi.
Vivere con una malattia cronica significa imparare a misurare ogni singolo movimento, ogni sforzo, ogni minima azione quotidiana.
Anche solo stare seduto alla scrivania per un'ora, e ci riesco a stento, mi provoca forti dolori e un bruciore intenso, soprattutto alla schiena, che si irradia poi al collo e fino alle mani, causando spasmi e crampi lancinanti alle articolazioni, i quali mi lasciano esausto per le ore successive. Usare il mouse per troppo tempo comporta dolori acuti alla mano e all’avanbraccio, costringendomi a fermarmi continuamente.
Mantenere la posizione seduta a lungo diventa sempre più difficile. Magari cambio spesso posizione ogni minuto, oppure mi alzo e faccio qualche passo per casa, ma nonostante i ripetuti tentativi di alleviare i dolori, il sollievo è minimo e fugace.
Indossare il busto, pur dando un minimo sostegno, limita ulteriormente i miei movimenti. La compressione che esercita sull’addome, rende ancor più intollerabile la posizione seduta, trasformando ogni momento in un’afflizione. Mi toglie il respiro e le stecche affondano nella carne, rendendo impossibile concentrarsi, mantenere una postura accettabile e lavorare in modo continuativo ed efficace.
Ho dovuto fare i conti con questa realtà: lavoravo per quattro spiccioli, lavoravo nel dolore, provocando altro dolore. Era diventato quasi un atto di masochismo.
Alla fine sono stato costretto a rinunciare anche a quelle poche ore di lavoro come grafico che, per quanto mi dessero un guadagno minimo, mi permettevano di contribuire alle spese quotidiane e di sentirmi ancora, almeno in parte, utile.
Viviamo in una società che tende a ignorare i più fragili, relegandoci ai margini. La realtà della nostra società è spietata: se non lavori, se non rientri in determinati "canoni", diventi invisibile, bollato come un peso, un parassita.
La dignità di una persona viene troppo spesso misurata unicamente in base alla capacità di produrre o al curriculum vitae, come se non ci fosse altro criterio per definire il valore di un uomo.
Ogni nuova conversazione sociale sembra seguire lo stesso copione: «Come ti chiami?» e subito dopo, immancabile, «Che lavoro fai?». Per me, questa domanda è una ferita che si riapre ogni volta, una costante mortificazione. Mi trovo spesso a fronteggiare domande e affermazioni che non lasciano spazio alla comprensione o alla minima empatia. E, anche se sembro indifferente a ciò che gli altri pensano di me, in realtà è qualcosa che mi condiziona più di quanto mi piacerebbe ammettere.
Dover spiegare, ogni volta che qualcuno mette in dubbio le mie difficoltà, ogni volta che devo giustificarmi, o sentire negli occhi degli altri il peso di un giudizio, anche quando non espresso a parole, è un’esperienza profondamente umiliante.
«Ma se riesci a fare certe cose, perché non puoi farne altre? Non esageri un po’?». Queste domande, cariche di superficialità e spesso poste con aggressività, feriscono profondamente, perché ignorano completamente il prezzo che pago per ogni sforzo.
Tutti si ergono a esperti della mia vita, senza nemmeno provare a capirla. «Ce la farei, sì, ma a che prezzo?» rispondo, cercando di difendere la mia verità, sapendo però che nessuno può davvero conoscere cosa significhi vivere costantemente con il mio dolore. Mi ritrovo così a spiegare l’inspiegabile, a cercare di colmare un abisso di incomprensione, sentendomi sempre più isolato e solo nella mia battaglia.
Questa esperienza di stigma sociale e di mancanza di supporto è, purtroppo, molto comune a molte persone con disabilità o malattie croniche.
XII
Io e la mia compagna non abbiamo avuto famiglie pronte a sostenerci. La nostra unica famiglia su cui poter contare è quella che abbiamo costruito insieme, nella fragilità, nel bisogno reciproco, nella volontà di esserci l’uno per l’altra, quando tutto il mondo ci ha voltato le spalle, e il pensiero di perderla mi spaventa profondamente.
Nella mia famiglia è sempre mancata una visione proiettata verso il domani, marcando una totale assenza di cautela e buon senso. Anche quando i miei problemi, inizialmente solo accennati, hanno cominciato a manifestarsi con forza, compromettendo la mia vita quotidiana, non sono stato mai né ascoltato né compreso. Con leggerezza, con cattiveria, o nascondendosi dietro una finta ingenuità, la soluzione più comoda è sempre stata ignorare i problemi.
Non ho ricevuto il supporto economico necessario per affrontare visite specialistiche o intraprendere un percorso terapeutico adeguato. E non perché mancassero i mezzi. Al contrario, i soldi c’erano, ma venivano gettati in spese superficiali. Ho passivamente assistito, nel tempo, a un dispendio delle risorse economiche familiari, spesso impiegate senza criterio, usate in modo superficiale. Gli investimenti compiuti si sono rivelati, nella maggior parte dei casi, veri e propri salti nel vuoto: spese mosse dai desideri più effimeri, affrontate con una leggerezza disarmante; iniziative talvolta autodistruttive, guidate da impulsi insensati e talvolta megalomani, dilapidando così le possibilità che avrebbero potuto offrirmi un minimo di stabilità e quella serenità che non ho mai conosciuto. Per me, infine, non c’erano mai soldi.
Nel frattempo, la mia malattia, e ancor prima, la ricerca di una diagnosi e i tentativi di comprenderne i primi segnali, non è mai stata meritevole di reale attenzione e interesse, da parte di nessuno.
Sebbene la gravità della mia condizione sia stata ormai riconosciuta, purtroppo non è stata mai del tutto concretamente accettata. La mia compagna ed io non riceviamo alcun aiuto concreto da parte di chi ci circonda. Al contrario, spesso siamo stati oggetto di provocazioni e critiche ingiuste, come se questa condizione fosse una scelta, un alibi per sopravvivere a spese altrui senza fare nulla.
Anziché ricevere una rete di protezione che sarebbe stato naturale aspettarsi, ci siamo ritrovati, paradossalmente, a prenderci noi cura di altri, e colmare le mancanze di chi, per negligenza o incapacità, ha delegato sulle nostre spalle oneri e responsabilità che non ci spettavano.
Ci siamo trovati immersi, ognuno nella propria realtà familiare profondamente disfunzionale, dove gli unici tratti davvero condivisi erano l’egoismo, la superbia e il narcisismo. Un sistema in cui il nostro valore coincideva con la nostra utilità.
Col senno di oggi, riconosco che la nostra eccessiva tolleranza, la pazienza ostinata, è stato un grande errore. Per troppo tempo abbiamo messo da parte noi stessi e il nostro benessere, illudendoci che l’attenzione e la dedizione che offrivamo agli altri sarebbero, un giorno, tornate indietro. Ma così non è stato.
Ogni difficoltà è stata appesantita da pressioni esterne, alcune continuano tuttora a gravare su di noi. Questo ci ha portati a un sovraccarico di compiti e impegni che hanno reso ancora più difficile affrontare la mia malattia in modo adeguato.
Davanti al perenne e sistematico rifiuto di voler riconoscere la gravità della mia condizione, da parte di chi avrebbe potuto aiutarci, avrei preferito l’assenza più netta, l’indifferenza totale, il sentirmi invisibile.
La mancanza di sensibilità e l’ostilità, non solo hanno segnato profondamente ogni passo del mio viaggio, lasciando ferite ancora aperte, ma hanno probabilmente contribuito a farmi perdere occasioni preziose per agire sulla malattia in modo più tempestivo e incisivo, quando era ancora possibile sperare in un miglioramento concreto.
XIII
La nostra situazione abitativa attuale è diventata insostenibile. Il pensiero di non sapere dove potremmo vivere, come fronteggiare le spese future o come garantire il proseguimento delle mie cure, ci lascia in uno stato di ansia paralizzante. Siamo in cerca di un luogo dove poter ricostruire un sogno di normalità, di una vita dignitosa, in cui poter continuare a combattere la mia battaglia.
L'unica opzione plausibile sarebbe quella di rilevare la casa di proprietà di mio padre, un appartamento degli anni ‘60, vicino al centro città, dove attualmente sopravviviamo a malapena, perché non è un ambiente adatto a chi ha necessità di stabilità e adattamenti specifici.
È una casa fredda, umida, malsana. I balconi in ferro ormai arrugginiti, non si chiudono neanche bene e col vento si spalancano lasciando filtrare tutta l’umidità e le correnti gelate dell’inverno. In casa c’è muffa, e l’umidità ha raggiunto livelli insostenibili, aumentando così il mio perenne stato d’infiammazione. Per una persona sana sarebbe già un problema. Per me, con una malattia autoimmune reumatica grave e cronica come la Spondiloartrite Anchilosante, è un vero incubo. È un ambiente tossico che spinge l’acceleratore sul peggioramento della mia salute.
Dovrei rifare i due bagni, realizzati in modo maldestro e ho la necessità di riposizionare i sanitari per poter installare una maniglia e dei supporti fondamentali, per muovere con sicurezza e lavarmi autonomamente. In uno dei due, dovrei installare una doccia nuova, con una seduta sicura, per non rischiare di cadere ogni volta e non stancarmi eccessivamente durante la doccia. Forse non riuscirò comunque a lavarmi del tutto da solo, ma potrei almeno evitare di pesare completamente sulla mia compagna.
Anche la cucina è in condizioni pietose. Vecchia, mal progettata e usurata, priva dei pensili necessari e dei tramezzi, trasferita qui da un’altra abitazione vent’anni fa, rimontata senza rispettare alcun criterio ergonomico o funzionale. Non abbiamo nemmeno il minimo spazio necessario per fruire comodamente delle poche cose di cui avremmo bisogno. Alcuni elettrodomestici non sono ben funzionanti, come il frigorifero e il forno in particolare, e sono da cambiare.
Dobbiamo inoltre eliminare una stufa a legna ormai fuori uso, e realizzare finalmente l’allaccio del gas al terzo piano. Al momento viviamo senza riscaldamento, e l'acqua calda dipende da una bombola di gas che ogni mese qualcuno deve salire a montarmi. È pericoloso, è faticoso, ed è profondamente umiliante.
Non c’è uno spazio della casa dove non ci sia una pezza o un compromesso, ogni angolo racconta di soluzioni provvisorie e dei limiti imposti.
Ogni giorno mi sveglio con la consapevolezza che, pur avendo un tetto sopra la testa, non trovo in esso la sicurezza di cui ho bisogno. Vorrei poter concentrare le mie energie su questo cruciale progetto, ma anche continuare a cercare sollievo dalla mia malattia, garantendo a me e alla mia compagna un tetto sicuro dove possiamo costruire un futuro, per quanto incerto possa sembrare. Si tratta di lavori importanti e costosi, che richiederebbero un investimento significativo, che è semplicemente irraggiungibile.
La prospettiva di accedere a un mutuo è un sogno irraggiungibile per chi, come me, vive con una malattia cronica invalidante e senza un reddito stabile. L'idea di affrontare tassi di interesse elevati per finanziare lavori o per qualsiasi altro prestito è come avventurarsi in un labirinto senza uscita, dove ogni euro speso in interessi sarebbe denaro sottratto alle cure mediche e ai bisogni essenziali.
In alternativa, anche l'affitto di una nuova abitazione, potrebbe sembrare una soluzione, ma rappresenterebbe solo un'ulteriore perdita di risorse, senza offrire la stabilità di cui abbiamo bisogno per costruire un futuro. La prospettiva di dover pagare per un tetto che non sarà mai nostro, inoltre, renderebbe la nostra vita sempre più precaria e incerta.
Possedere invece una casa che sia veramente nostra, adattata alle mie necessità di salute, offrirebbe un sollievo incommensurabile.
In questo presente carico di insicurezze e dubbi, mi impegno a ripensare ogni dettaglio del progetto di ristrutturazione. Desidero trasformare la casa in un luogo che risponda non solo alle necessità pratiche, ma anche a un bisogno più profondo di sicurezza e stabilità.
La malattia già mi impone tanti compromessi e, almeno in casa vorrei poter vivere in modo dignitoso, in uno spazio che risponda alle mie condizioni fisiche e mi consenta di affrontare con un minimo di serenità le sfide quotidiane. Ogni intervento, per quanto impegnativo, è visto come un passo verso la possibilità di vivere dignitosamente gli anni che mi restano, senza essere costantemente sopraffatto dal dolore, dall’angoscia e dalla paura. Un luogo dove io e la mia compagna possiamo, finalmente, sperimentare un futuro meno incerto e più stabile.
XIV
Nonostante le difficoltà e le sofferenze, durante questo lungo e difficile percorso ho avuto la fortuna di incontrare alcuni dottori di grande umanità e persone straordinarie che, malgrado la complessità della mia situazione e la gravità della malattia, hanno saputo offrirmi ascolto e supporto. Questi medici, con la loro competenza e la loro empatia, hanno fatto la differenza, non solo per le loro capacità professionali, ma soprattutto per la loro capacità di vedermi come una persona, con una storia, con delle emozioni, e non soltanto come un paziente affetto da una malattia incurabile. Mi hanno aiutato a intravedere una strada da seguire, anche se ardua e impervia, e a trovare il coraggio di andare avanti, a non arrendermi al pessimismo.
A loro, alla mia psicologa, alla mia fisioterapista, così come ai pochi amici che non mi hanno mai minimizzato, che mi hanno aiutato nei momenti più difficili, va la mia più profonda e sincera gratitudine. Hanno saputo riconoscere la mia dignità, la mia umanità, e comprendere che, prima che la malattia sconvolgesse la mia esistenza, ero un ragazzo pieno di energia, con una vita in cui mi realizzavo, ricca di attività, di interessi e di passioni.
La loro empatia e il loro sostegno mi hanno aiutato a non sentirmi completamente solo e abbandonato in questa lotta impari. Voglio dedicare loro un pensiero sincero di riconoscenza, perché il loro contributo è stato fondamentale per non perdere la speranza di un domani migliore.
XV
Questo racconto non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza. Desidero dedicare del tempo alla rielaborazione di questa mia testimonianza. Vorrei trasformare questa patografia, in un libro più ampio e strutturato, una visione d’insieme di quanto sono stato, di tutto quanto ho amato, ho sofferto e ho perso. Un’autobiografia che possa essere non solo un resoconto della mia lotta contro la malattia, ma anche un viaggio interiore che attraversa il mio dolore, le sfide e, soprattutto, le lezioni che ho appreso lungo il percorso.
La mia vita non è stata mai semplice. Il confronto con la falsità e l'opportunismo mi ha reso più consapevole, ma anche più disilluso, rendendo il mio cammino ancora più impervio. Ho incontrato molte persone che indossavano maschere, che cambiavano opinione a seconda delle circostanze più convenienti. Io, al contrario, mi sono sempre sforzato di essere autentico, di mostrare la mia vera natura, con le mie forze e le mie fragilità.
Oggi, mi presento a voi nella mia essenza: spezzato da una malattia implacabile e, non meno profondamente, segnato da molte esperienze dolorose. Tuttavia, non voglio cedere alla rassegnazione, né alimentare il rancore. Voglio credere ci sia ancora posto per la solidarietà, che non tutto il mondo ruoti intorno alle apparenze.
Mi chiedo continuamente chi sarei adesso se la malattia non fosse entrata nella mia vita. Mi sarei battuto nelle stesse battaglie o avrei lasciato scorrere le cose senza troppi pensieri? Mi sarei fermato agli stessi semafori rossi o avrei preso strade diverse?
Forse sarei più attento, più leggero, forse semplicemente diverso. Ma ora questa è la mia realtà, e l’unica cosa su cui ho potere è decidere di continuare ad andare avanti.
Accettare la malattia non significa smettere di lottare. Io combatto ogni giorno: per le cure di cui ho bisogno, per una casa sicura, per una vita dignitosa.
Scrivere la mia storia è parte di questa battaglia. È un modo per dare voce a ciò che altrimenti resterebbe inascoltato. È la mia forma di resistenza.
Cosa accade dentro di noi quando la malattia strappa dalle nostre braccia quello che dava un senso alla nostra vita? Quello che abbiamo tanto amato e perduto? Quando gli ideali ai quali eravamo profondamente legati e che hanno accompagnato la nostra vita, si infrangono inesorabilmente contro la complessità della vita umana?
Al centro di questo mio racconto c’è il rapporto della vita umana con l’esperienza traumatica della perdita. Ma la vita non può scorrere solo attraverso le innumerevoli e simboliche morti, non parlo solo dei defunti, ma di tutte le perdite che ho vissuto e che hanno lasciato un segno. Ma quale lavoro è necessario compiere per superare la perdita? Quale lavoro è necessario compiere per attraversare il lutto senza lasciarsi annientare?
Dovrei incorporare il mio lutto, compiere il lavoro di riscrittura del mio essere.
Non ho scelto io questa battaglia, ma ho scelto di raccontarla. Non per ricevere commiserazione, né per cercare risposte che so di non trovare. È il modo in cui posso dare forma al caos, raccogliere i frammenti di ciò che ero e tentare di comprendere ciò che sono diventato.
Voglio che chi leggerà queste parole veda me, con tutte le mie cadute, le mie paure, la mia determinazione a restare in piedi, anche quando tutto sembrava crollare.
Questa è la mia testimonianza. È un viaggio dentro il dolore cronico, dentro la solitudine di chi è costretto a giustificare la propria sofferenza, dentro il paradosso di un corpo che esiste, ma non mi appartiene più. È una storia di perdita, ma anche di ciò che rimane, di ciò che ancora si può costruire, anche tra le macerie.
Questo è il punto di arrivo naturale di ciò che è stato seminato nelle prime pagine. Continuare a esistere, lottare, superare me stesso, sebbene in un’altra forma. Forse, proprio in questa lotta, troverò il mio modo di esistere oltre la malattia. Questo non significa negare una ferita impressa in modo indelebile, ma imparare a vivere nel bene e nel male, con la mia esistenza, come essa è divenuta.
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